29 giugno 2007

Appunti di viaggio (3)

28 aprile 2007. Terzo giorno.


I Bassotti sono davanti a me, tengono in mano il mio zainetto nel quale sono contenuti tutti i miei strumenti per il disegno. Io li inseguo di corsa, con tutte le mie forze, ma loro sono in macchina... Stiamo correndo in un tunnel buio e credo che alla fine sbucheremo da qualche parte nel porto di Paperopoli, forse proprio a Cavazzano Quay.


Però è strano: nonostante io sia a piedi, riesco a stargli dietro perfettamente, anche se ho il fiatone e non riesco ad avvicinarmi neanche un po'. Sono sempre lì, una cinquantina di metri avanti a me, e li sento cantare canzonacce sguaiate. Mi prendono in giro e questo accresce la mia rabbia e la mia agitazione.


Infuriato, spingo ancora di più sul monopattino. Ah, ecco perché andavo così veloce: non sono a piedi, sono in monopattino. Devono avermelo prestato i nipotini di Paperino. Spingo sempre più forte e sto andando talmente veloce che ho paura, ma non riesco a fermarmi. Le luci del tunnel mi sfrecciano ai lati in una corsa folle, sembra di essere in un videogioco.


Paperoga alle mie spalle mi consiglia: più forte, più forte! Strano, non mi ero accorto che ci fosse Paperoga dietro di me sul monopattino. Deve stare arrivando anche la polizia, perché sento arrivare una sirena. No, non è una sirena, è uno scampanio.


Poi a un certo punto l'auto dei Bassotti frena e sterza bruscamente, fermandosi per traverso nel tunnel. Povero me, penso raggelando, ci finirò contro, non riesco a fermarmi! La vedo avvicinarsi inesorabilmente, sempre più grande, la salto col monopattino, forse mi ci sono schiantato contro e ora sto volando, finirò sull'asfalto, aiuto... e dentro la macchina non ci sono i Bassotti ma Gambadilegno che mi guarda con un sorriso beffardo... è un lungo volo...




* * *



Con la sensazione brusca di essere precipitato dall'alto mi ritrovo sul divano di Gastone. Da dietro le tapparelle chiuse inizia a filtrare piano piano il sole del mattino... Ma allora era solo un sogno! Che sollievo! Sembrava tutto così reale... Ma Paperopoli non è un sogno! Sono proprio a casa di Gastone, e tutto il resto, l'incontro dell'altro ieri con Paperoga, il giro della città, era tutto vero! Però qualcosa non quadra lo stesso, penso, nella confusione del sonno che piano piano, svanendo, fa riemergere i miei sensi...


Din-don Din-don Din-don... Ecco cos'era! Lo scampanio, quello c'è ancora! Qualcuno sta suonando ripetutamente il campanello di Gastone, realizzo ora, e proprio mentre me ne rendo conto la voce di chi mi ospita risponde trafelata dal piano di sopra...


"Arrivo, arrivo!". Gastone, spettinato, scende di gran carriera le scale. Non si è accorto che mi sono svegliato e vederlo così è buffissimo. Non ha i suoi soliti riccioli ben curati ma un testone biondo arruffato... e passando davanti allo specchio si dà un'occhiata e deve rendersi conto di quant'è buffo, perché subito apre un cassetto del comò e si caccia sulla zucca un berrettone. Poi apre.


"Mister Gander, buongiorno." È un uomo robusto, sulla quarantina, di quelli col naso nero. "Sono venuto a ritirare i premi che abbiamo portato ieri mattina." "Ma veramente..." risponde lui, guardando verso di me "non è ancora... oh! Zniga, sei sveglio? Ciao!" Sembra molto imbarazzato.


Non capisco che stia succedendo, ma rispondo. "Ciao, Gastone. Che succede?" "Oh..." fa lui. "Ti spiegherò tutto." Poi, rivolto al signore: "Lasciane due a caso. Devo firmare qualcosa?" "No, no..." replica lo sconosciuto "...è a posto così. Porto via tutto subito." E richiude la porta. Un attimo dopo lo sento trafficare in giardino.



* * *


Anche a casa di Gastone sono stato costretto a saltare la colazione. Solo un caffè, e per giunta all'americana. Ma è possibile che in questa città io non riesca mai a mangiare? Penso, mentre Gastone mi invita a salire su una splendida spider arancione, nuova fiammante, parcheggiata accanto al marciapiede, di fronte alla villetta. Potrei giurare che ieri non c'era.


Con Gastone percorriamo in macchina Barks Drive, come ieri a piedi con Paperoga... e sta iniziando già a sembrarmi un ambiente familiare. L'aria è tiepida e c'è una leggera brezza. Ma vorrei fare colazione... Ok, l'aveva detto ieri di avere il frigo rotto... ma ero convinto che stasera ne avrebbe vinto uno ultimo modello, e invece non solo nel giardino non c'era nessun frigo, ma erano pure spariti quasi tutti gli scatoloni di ieri! Ce n'erano rimasti solo due o tre...


"Vedi, Zniga..." mi fa Gastone mentre guida, forse leggendomi nel pensiero. "Credo di doverti una spiegazione per quel che è successo stamattina. Sai quel tipo, quello che è arrivato quando tu ti eri appena svegliato..."


E mi racconta che, sì, fortunato lo è per natura, anzi per genetica, dato che sua madre è la fortunatissima Daphne Duck... ma che il ruolo che recita nei fumetti è decisamente al di là delle possibilità anche di un superfortunato come lui... per cui la maggior parte degli oggetti che riceve in premio altro non sono che un modo di suo zio di... sfruttare il suo ruolo di "baciato dalla buona stella" nei fumetti!


"Così" mi spiega "quando disegnano una storia dove io ho un ruolo importante, mio zio fa arrivare a casa mia un sacco di premi, tutti rigorosamente prodotti delle sue fabbriche, in modo da farsi più pubblicità! E in cambio me ne lascia scegliere due o tre da tenermi... per esempio la Pasta Birilla, quella di ieri sera... io ne sono ghiotto, capisci? Me la sono tenuta tutta... ma tutti gli altri premi, finita la storia, tornano ai suoi negozi. Anche perché dove li terrei, sennò? Vedi, stamattina stavo giusto uscendo a vedere se tra i premi di ieri ci fosse per caso un frigorifero, ma poi ti ho visto sveglio e ho detto al tizio di portarsi via tutto subito e lasciarmi due scatole a caso... non sapevo se dirtelo o no..."


"Sì, ok" rispondo "ma oggi che c'entrava la faccenda dei premi? Mica ti stanno disegnando!"


"Beh... in questi giorni a Paperopoli ci sei tu! Evidentemente lo zione non era al corrente del fatto che già sapevi in parte come funzionano le cose qui... Anche questa spider dove siamo, vedi? Deve essere arrivata stamattina. Probabilmente dovranno disegnarla in qualche storia imminente, e devo prenderci familiarità. Naturalmente passerà per un premio. Ma puoi star sicuro che, appena finita di disegnare la storia, lo zio se la riprenderà. Sai, non mi lamento... posso guidare praticamente una macchina diversa ogni giorno, anche se non sono mie... praticamente è il mio lavoro... diciamo così!"


"Lavoro? Mi stupisce sentirti parlare di lavoro!" rispondo, sorridendo. "Proprio tu... proprio tu che..." (potrò dirlo?) "Sai, la storia... ehm... della cassaforte..."


"Ah, ah ah!... quella!" replica allegramente "È vuota, non ha nessuna combinazione! Me l'aveva fornita Archimede e il decino me lo diede mio zio. Servì solo per quella storia, credo di non averla nemmeno più in casa..."


Io sono sempre più strabiliato. Allora Gastone non è quell'antipatico sbruffone sempre fortunello che tutti conosciamo...


Intanto siamo arrivati in fondo a Barks Drive, e percorriamo il ponte sul Tulebug, quello con gli alberelli. Gastone vuole portarmi a fare un giro nella parte della città che non ho ancora visto, quella settentrionale. Non ho idea di come questo possa aiutarmi a ritrovare lo zainetto rubatomi dai Bassotti, ma mi fido di lui... ok, dopo quello che mi ha raccontato la sua proverbiale fortuna si è un po' ridimensionata ai miei occhi, ma resta pur sempre il figlio di Daphne Duck, e la buona sorte deve averla nel sangue... e in fondo io non attendo altro se non di girare tutta questa città meravigliosa, conoscere ogni suo angolo e ogni suo segreto...



* * *



Così, superato il fiume e il quartiere commerciale, percorriamo prima Carpi Lane, quindi, oltrepassata Arrigada Rios Square, imbocchiamo Manrique Road. "Passo di qua" fa Gastone "perché se passassi da Cimino Avenue e Paperino fosse in giardino come suo solito dovrei fermarmi a parlare... sai com'è..." Ma non è giusto, penso! "Ma io ci voglio andare, da Paperino!" "Ci andremo, ci andremo..." risponde Gastone... "ma all'ora di pranzo! Non hai idea di come cucini mio cugino!" Lo ha detto anche ieri Paperoga, per cui deve essere proprio un ottimo cuoco.


Manrique Road non arriva dritta al Deposito come la parallela Cimino Avenue, ma lo oltrepassa a qualche isolato di distanza. Per cui devo accontentarmi di ammirarne il profilo da lontano. A quanto pare, l'incontro con Paperone non avverrà nemmeno stamattina. "Ma io devo andarci, da tuo zio!" protesto. "Lo sai anche tu come tratta i ritardatari, no?"


Gastone, tuttavia, sembra tranquillo. "Fidati di me, è tutto a posto, l'ho già avvertito". Strano, non l'ho visto telefonare. Ma mi fido. Forse qui a Paperopoli comunicano con il pensiero... in questo posto ormai non mi stupirei più di niente.


Intanto, il mio accompagnatore mi spiega che sta portandomi in uno dei luoghi più misteriosi di Paperopoli... istintivamente penso alla Cattedrale di Notre Duck, quella che si vede così raramente eppure c'è... però siamo ormai su una strada a scorrimento veloce, diretti sempre più a nord, e mi sembra che dal centro ci stiamo allontanando sempre di più.



* * *


Dopo chilometri, non saprei dire quanti, dopo aver scavalcato su un ponte una linea ferroviaria, l'unica da me vista finora, e sorpassato numerosi svincoli autostradali con indicazioni che si riferiscono al porto - ma quanto è grande questo porto? Non sapevo si estendesse su entrambi i lati del fiume! - arriviamo in una zona più periferica. Qui le case sono più piccole, le strade semivuote, i muri pieni di scritte. la zona è pianeggiante, a ovest, lontano, si intravede il mare, ma verso est il terreno si articola in una serie di collinette a panettone sulla cui sommità sono abbarbicati grappoli di piccole case, semplici e colorate. I pochi passanti mangiano gelati e tutti, o quasi, sono in canottiera. E mi stupisce il fatto che la metà delle persone che vedo, paperi e non paperi, siano di colore.


"Cos'è, il quartiere africano?" chiedo incuriosito.


"No, no... questo è il quartiere brasiliano, ed è molto più grande di come tu possa immaginare. Ci abita Gloria, la fidanzata di Paperoga. Anche lui ha una casa qui tra l'altro, anche se non ci viene spesso. E qui vicino c'è pure la villa di mio zio, pensa un po'!"


Ma certo! I brasiliani, come ho fatto a non pensarci? E le targhe stradali lo confermano: Saidenberg Road, Miyaura Square, Rodrigues Lane... che peccato passarci così in fretta, deve essere uno dei quartieri più interessanti. Mi piacerebbe incontrare magari Pennino e Cinzia... che peccato avere così poco tempo! Tornerò, Paperopoli, puoi starne certa!



* * *


La strada, usciti ormai da quell'abitato che sembrava interminabile, si fa più stretta e inizia a inerpicarsi. Siamo sulla costa adesso, una costa rocciosa e articolata, piena di piccole baie, insenature e promontori. Finalmente ho capito, forse, dove siamo diretti.


Il vecchio faro è laggiù, su una sporgenza rocciosa a picco sul mare. Mancheranno ancora un paio di chilometri. Il panorama da lì deve essere stupendo. Ai due lati della strada ci sono solo distese d'erba... e sulla sinistra, oltre l'erba, il mare, giù in basso... il vento è forte e con la maglietta leggera che ho, qui sulla spider ho quasi freddo. L'autoradio di Gastone diffonde una canzone nostalgica di un certo Capellone Joe.


Poi Gastone lascia l'auto sul ciglio della strada e m'invita a proseguire a piedi. Il rumore del mare è assordante e l'odore della salsedine giunge fin quassù, inebriante, portato dal vento. C'incamminiamo per un ripido sentiero che si discosta dalla statale in direzione del mare, inerpicandosi sul promontorio. Il vecchio faro è distante, almeno cinquecento metri. Sembrava più vicino. Qualche gabbiano vola in lontananza, lasciandosi trasportare dalle correnti come un aliante. Alti ciuffi di erbe sconosciute si piegano sotto le raffiche. E l'urlo delle onde che si frantumano contro gli scogli, giù in basso, si fa sempre più forte e più insistente dagli anfratti delle scogliere che non vedo ma immagino, mentre seguo la figura di Gastone, così buffo e irreale con quei vestiti eleganti in un paesaggio verde e azzurro che neppure credevo potesse esistere qui nei dintorni.


 the Old Lighthouse


La porta lignea del vecchio faro è spalancata. Sulla piccola cupola alla sommità della costruzione, alta una dozzina di metri, sette o otto gabbiani e una cornacchia spiccano simultaneamente il volo appena sbuchiamo dal sentiero sullo spiazzo che circonda l'edifico. Oltre lo spiazzo, il promontorio termina bruscamente con un salto. Giù, solo il mare azzurro, lo sconfinato Pacifico di James Cook, screziato fino all'orizzonte dai milioni d'increspature bianche delle onde, riccioli di schiuma da barba su un immenso vetro che specchia il cielo. Prudentemente, giro intorno al faro e mi sporgo a guardare. È un salto vertiginoso, saranno almeno venti metri. Ogni onda che s'infrange esplode in una nuvola di spruzzi che quasi lambisce l'orlo del promontorio dove mi trovo, mi arrivano tutte le goccioline, sospese nell'aria come una nebbia. In bocca ho il sapore del sale. È fantastico, irreale.


Dev'essere uno di quei luoghi dove la gente viene, si sa, ma quando ci vai non ci trovi mai nessuno. Come in tutti i posti misteriosi. E già ho dimenticato lo scopo per cui sono qui, Paperone, i Bassotti, mentre seguo Gastone verso la torretta, i cui vecchi muri sono incrostati di sale e scarabocchiati, qua e là, da scritte mezze cancellate. Alcune inneggiano al Drakesbro e al Pepper, ma la maggior parte sono scritte d'amore. Anche tra paperi ci si ama, penso sorridendo. E quest'angolo incantevole sembra fatto apposta. In effetti, se ora al posto di Gastone ci fosse una ragazza sarebbe perfetto. Peccato non abitare qui, penso ancora una volta.


La scaletta interna sale rapidamente a spirale, e poco dopo io e Gastone ci troviamo nella stanza del faro, sotto la cupola di vetro che, ormai priva di ogni manutenzione, è tutta imbrattata e incrostata dal guano di generazioni di gabbiani. Sui muri scritte ovunque, per terra mozziconi di sigarette e lattine vuote. Ma anche così ha un fascino indescrivibile, quel fascino tipico dei luoghi abbandonati e segretamente frequentati un po' da tutti.


Sul terrazzino esterno, facendo attenzione a non appoggiarmi alla ringhierina arrugginita dall'aria davvero malferma, mi volto finalmente verso Sud. Lo spettacolo è indescrivibile.


Verso Sud, la baia si stende immensa, leggermente velata dalla nebbiolina sollevata dal continuo infrangersi dei marosi sulla costa. La città è enorme. Lontanissime, piccole come giocattoli, sfuocate, navi colorate sostano in rada, nell'attesa di entrare in porto. In mezzo al golfo, l'isolotto. Le case più lontane sono una massa indistinta, i colori da qui non si vedono, sembra un enorme tappeto chiaro. È qualcosa che lascia senza fiato. Sul terrazzino c'è un cannocchiale, girevole, simile a quelli che nelle città di mare sono situati sui lungomare, e i bambini ci mettono la monetina e guardano le barche lontane. Voglio puntarlo sulla città. Gira a fatica, cigolando, probabilmente non ci si vede più niente. Invece, accostando l'occhio alla lente, vedo un po' velato dal sale, ma distinto, l'insieme delle case, le finestre, perfino le auto e le persone per le strade. Vicinissime. Riesco persino a vedere la Killmule Hill e il Deposito. L'osservo per qualche minuto... Paperone è lì, deve esserci per forza, se solo si affacciasse alla finestra, se solo uscisse a fare un giro...


"Stupito, eh, della città? Hai visto quant'è grande?"


"Sì... è incredibile! Ma quanti abitanti siete? Dovete essere milioni!"


"Beh, Zniga, quanti siamo esattamente non lo so, però fai un rapido collegamento. Pensa a quante storie vengono disegnate ogni anno. Pensa alla gente che si vede nelle storie. A parte me, i miei cugini, la mia famiglia... hai mai visto due facce uguali? Ecco, pensa a quante persone diverse compaiono in ogni storia e a quante storie vengono disegnate, in tutti i Paesi. E aggiungici migliaia e migliaia di persone che ancora nessuno ha mai rappresentato. Dobbiamo essere davvero in tanti, non trovi?"


In effetti non ci avevo mai pensato. Ed è sorprendente.


"E poi, Gastone... questo cannocchiale... ma... com'è possibile? Che funzioni ancora dico... e che ingrandisca così tanto! Ero convinto che non funzionasse!"


"Vedi, Zniga... forse in qualsiasi posto reale quel cannocchiale non funzionerebbe più da un bel pezzo, ma sai, qui a Paperopoli... con gli occhi della fantasia puoi vedere davvero quello che vuoi..."



* * *



Non ho ancora ritrovato lo zainetto... ma la visita al vecchio faro val bene la perdita di una cartina, qualche foglio e qualche matita! Al massimo li ricomprerò tra poco in centro, tanto ormai mi sembra di aver capito che per vedere Paperone dovrò aspettare domani mattina... l'ultimo giorno!


E intanto, mentre attraversiamo di nuovo Paperopoli a tutta velocità, questa volta da Nord verso Sud, apprendo che siamo diretti a fare compere. Paperino ci ospiterà per pranzo, o per cena, dato che in realtà l'ora di pranzo deve essere ormai passata e ho un bel po' fame, ma ho capito che qui gli orari cambiano di giorno in giorno e ognuno fa un po' quello che vuole. Andremo a comperare in un supermercato vicino al Parco, sulla sponda del fiume, perché Gastone, come milionesimo cliente, ha diritto ad acquisti gratuiti a vita lì dentro. Ciò che compreremo servirà a Paperino per preparare il pranzo. Non sto più nella pelle dall'idea di pranzare da Paperino. Quasi quasi vorrei dire a Gastone di portarmi da lui e aspettarlo lì... ma forse non è gentile...



Mentre ci dirigiamo verso il Parco, arrivati nella zona immediatamente a nord del Deposito, passiamo finalmente accanto alla Cattedrale di Notre Duck... e nell'ammirarla dall'auto in tutto il suo splendore di nuovo capisco come quattro giorni sono davvero troppo pochi per poter conoscere davvero questa città... mi accontento di una foto con il telefonino...


 Notre Duck Cathedral


Dopo aver percorso Manrique Road al contrario, arriviamo finalmente vicini ai confini settentrionali del Coot Park, il grande parco comunale intitolato al fondatore della città. Siamo nel pieno dell'ora di punta e, per buon senso, verrebbe da pensare che un parcheggio libero nelle vicinanze del supermercato non lo troveremo mai... ma non ho messo in conto la fortuna di Gastone, che naturalmente, dopo aver girato per nemmeno due minuti, finisce per trovarsi come al solito nel posto giusto al momenbto giusto.


Un papero dal becco appuntito con un furgoncino, infatti, esce in retromarcia dal parcheggio, lasciando libero un posto magnifico, nel quale la sua superspider, molto più lunga e larga della maggior parte delle piccole auto paperopolesi, entra a a meraviglia.


E mentre si dirige verso il supermercato - un largo e basso parallelepipedo di cemento, con un'unica grande porta a vetri e un'enorme insegna colorata, davanti al quale si stende un vasto piazzale - io ne approfitto per farmi finalmente un giretto nel parco. Si sa mai che magari incontro Paperone! Sì, lo so, lui di solito ci va al mattino, prima che passino i netturbini, per trovare i giornali vecchi... ma alla fine mi sembra che qui nessuno segua degli orari troppo rigidi...



* * *



Coot Park, isola d'alberi e quiete tra i grattacieli, non è molto diverso da qualsiasi grande area verde di una grande città... vialetti sterrati coperti di ghiaia che si snodano tra i prati, bimbi con la bicicletta, gente col cane, belle papere in T-shirt e calzoncini attillati che corrono per tenersi in forma. Uccelli di specie diverse cinguettano sui rami. Io, appassionato di ornitologia, riconosco tra gli altri un Cardinale rosso e un Vireo, oltre a una banalissima cornacchia. Ci sono panchine di legno dappertutto e c'è anche un ruscello che lo attraversa da cima a fondo, deve essere un affluente del Tulebug. Oppure ha una foce indipendente? Non lo so, mi piacerebbe saperlo, ma purtroppo la mia carta è rimasta nello zainetto in mano a quei manigoldi...


Dopo aver gironzolato in lungo e in largo tra i vialetti ed esser finalmente riuscito a gustare un gelato comprato in un chiosco, arrivo in quello che deve essere il punto centrale, dove, in mezzo a uno spiazzo ghiaioso, campeggia la ben nota statua del papero con il becco a punta e i capelli lunghi che tiene in mano le pannocchie. Cornelius Coot, il fondatore della città, antenato di Nonna Papera e quindi anche di Paperino. Non somiglia per niente a nessuno dei due. E continuo a chiedermi perché, pur essendo anch'egli un'anatra, abbia un cognome che significa "folaga". Sulla punta del becco c'è appollaiato un piccione. Anzi no, non è un piccione, è di nuovo una cornacchia.


Cornelius Coot


Dopo aver gironzolato in lungo e in largo decido che è ora di tornare, che Gastone deve aver terminato gli acquisti ma... da che parte sono entrato? Oddio, non me lo ricordo più! Come farò ad uscire? Se solo sapessi come si chiamava la strada dove Gastone ha parcheggiato la macchina! Se ricordasse lo "stile" particolare della strada, potrei associarla al nome di un disegnatore, ma... se per caso aveva il nome di uno sceneggiatore?


Pensa che ti ripensa... alla fine prendo una decisione: io so che devo andare a pranzo da Paperino, so che abita in Cimino Avenue, più o meno a metà, per cui mi basterà chiedere a qualcuno come si fa per arrivarci. Gastone, con la sua fortuna, non avrà nemmeno bisogno di cercarmi e mi troverà già lì, ne sono sicuro.


A chi chiedo? Ci vorrebbe una bella paperotta, sarebbe più piacevole... in effetti laggiù ce n'è giusto una, che gironzola sui pattini a rotelle... ha lunghi capelli llisci e corvini, occhiali scuri, un bel fisico asciutto... credo proprio che chiederò a lei!


"Senti... ehm... scusa..."


Si toglie gli occhiali e mi guarda incuriosita. Mi sembra quasi di cogliere nei suoi occhi un'espressione di interesse e incredulità. "Per caso sai dirmi come arrivare in Cimino Road?"


"Cimino Road?" fa lei. Ha una voce un po' bassa, ma bella. "Cimino Road è quella che va verso il Deposito. Devi andare al Deposito?"


"No, lì devo andarci domani. Mi basta sapere dov'è Cimino Road."


Alla fine la paperotta acconsente ad accopagnarmi. Si siede su una panchina, si toglie i pattini e ci incamminiamo. È davvero gentile. È carina, ma meno giovane di come sembrava da lontano, penso sia più grande di Gastone (Gastone avrà più o meno la mia età, forse poco di più).


Le racconto del mio arrivo a Paperopoli, del fatto che vengo dall'Italia e... scopro con grandissima sorpresa che parla un italiano perfetto! Con un lieve accento meridionale addirittura... Forse non c'è da stupirsi, qui a Paperopoli parlano tutte le lingue del mondo.


Arriviamo a metà di Cimino Avenue che io nemmeno me ne accorgo, e siamo costretti a salutarci... che strano, eh? Smaniavo dalla voglia di conoscere Paperino e ora me ne andrei volentieri ancora a spasso con questa papera sconosciuta dai capelli neri...



* * *



Cimino Road è una strada larga, con un certo via vai di automobili e furgoni, ed è interamente pianeggiante. Niente a che vedere con la quiete e le strade strette, tutte un saliscendi, della zona di Barks Drive. La casa di Paperino si trova proprio in questa via, deve essere una delle tre o quattro villette che ora vedo in successione alla mia destra. A un certo punto ne scorgo una tutta di legno, che potrebbe essere quella giusta. Ha una cassetta della posta blu, un giardino ben curato, tra un albero potato e il vialetto di accesso c'è una sdraio su cui è appoggiata una copia del Papersera, e la porta di casa è socchiusa. Dentro c'è qualcuno, vedo ombre muoversi, ma non riesco a capire se si tratta di Paperino...


Poi leggo il nome sulla cassetta.


MITRAGLIA ANACLETO


Sono arrivato!!! Ma allora Mitraglia è italiano davvero, mi dico. E Jones? Boh... forse abita dall'altra parte...


E accanto alla casa di Anacleto c'è un'altra villetta quasi uguale, la cassetta della posta rossa e gialla, il vialetto, due alberi nel giardino tra cui è tesa un'amaca... Per terra una specie di materasso lanuginoso. Da una delle finestre, aperte, un profumo di dolci si diffonde sulla strada.


DONALD F., HUBERT, DEUTERONOMY and LOUIS DUCK


Sono loro!!! È strano, è emozionante ma nello stesso tempo è quasi come entrare in casa di un vecchio amico, penso mentre apro il cancelletto di legno come farei per entrare in qualsiasi altro giardino...


La ghiaia del vialetto mi scricchiola sotto i piedi mentre mi avvicino alla porta di legno e...  tutt'a un tratto, il materasso lanoso che ho visto sul prato sembra animarsi, si muove e si mette a corrermi incontro abbaiando! Oddio! Ma è un cane! Sarà buono? Spero di proprio di sì, penso, immobile, mentre quel bestione - che poi ha un'aria simpatica - mi gira intorno fiutandomi dappertutto.


"Bolivaaar! Stà zitto!"


Inconfondibile, una voce di un'anatra parlante mi arriva dalla finestra. Sentirla dal vivo fa un effetto indescrivibile.


"Arf, arf, arf!" continua a strepitare Bolivar, saltellando e correndo in cerchio intorno a me, come per attirare l'attenzione. "Arf, arf, arf!" Torna da me, si fa accarezzare un attimo e riprende ad abbaiare.


La porta si apre. "Insomma, che c'è?"


Ci guardiamo negli occhi per qualche secondo.


Ha il solito berretto blu, per traverso, le maniche rimboccate, un largo grembiule sul davanti che scende a coprire in parte le zampe arancioni e palmate. E un'espressione tutt'altro che amichevole che, nel vedermi, lascia spazio improvvisamente all'incredulità.


"Ma tu... chi sei? Non sei Zniga... o sì?"


"Ma certo che sono io! Ciao, Paperino! Piacere di conoscerti!"


"Zniga! Piacere! Piacere, scusami..." sembra preoccupato "Sai, ti aspettavo per pranzo con Gastone e... beh, mi dispiace accoglierti così..."


"Vuoi scherzare?" rido, mentre Paperino mi apre la porta, facendomi finalmente entrare nella casa più famosa del mondo. All'interno del soggiorno, un grosso tappeto circolare, rosso, giallo e arancione, decora il pavimento di legno, mentre una poltrona verde dall'aria molto comoda, quella che si vede in tutte le storie, è appoggiata al muro, accanto a un comodino su cui è posata una grossa lampada gialla e rossa. Oltre una tenda blu che funge da porta, poi, si intravede la scala che porta al piano di sopra, dove ci sono le camere di Paperino e dei nipotini.


A proposito... "Qui, Quo e Qua? Ci sono?"


"No, oggi sono da Nonna Papera, con Paperina... sai, stanotte dormirai qui e ho preparato la loro stanza apposta per te..."


"Ma potrò conoscerli? Torneranno domani?"


"Domani ci andremo noi da Nonna Papera, Zniga! Contento?"


Wow, questa sì che è una notizia! Da Nonna Papera, magari con la 313! E ci sono anche i nipotini! Non ci avrei mai sperato!...



* * *



Mentre Paperino torna in cucina a terminare i preparativi per il pranzo, ne approfitto per dare un'occhiata alla casa.


È una sensazione particolare, quella che si prova qui a casa di Paperino: un po' come quando ci si reca in un posto conosciutissimo, magari un sito archeologico, che si è già visto e rivisto mille volte in fotografia, e si ha come l'impressione di esserci già stati. Solo che questa è una casa, ed è ancora più strano. Chissà dov'è l'accesso al nascondiglio segreto di Paperinik...


Mentre gironzolo, la mia attenzione è attratta da uno strano oggetto, appoggiato su uno dei mobili del soggiorno. Sembra una gabbietta per criceti, ma la ruota per far correre la bestiola è collegata con una cinghia ad una dinamo che aziona una lampadina. Nella gabbietta non c'è nessun criceto, così provo io a far girare la ruota... in effetti funziona, la lampadina si accende. Sono così incuriosito che vado in cucina, a chiedere spiegazioni a Paperino.


"Ah, la gabbietta con la dinamo!" fa lui. "La tengo per ricordo. Servì per una storia di tanti anni fa, in cui quello strano oggetto doveva comparire nella prima vignetta!"


"Sì, ma... che fine ha fatto il criceto? La gabbietta è vuota!"


"Ti sembro uno che ama tenere gli animali in gabbia?" risponde Paperino, quasi indignato "Io, cresciuto alla fattoria di Nonna Papera, in mezzo a creature di ogni genere in libertà? Quel <<criceto>> altri non era che Ciop... Lo lasciai lì dentro solo il tempo necessario a disegnare quella vignetta. Non ti dico che fatica catturarlo! Mi diede uno di quei morsi... Anche per questo la gabbietta l'ho conservata. L'aveva costruita Archimede apposta per quella storia! Bolivaaaaar!"


Paperino si distrae per richiamare il cane, che ha ripreso ad abbaiare e questa volta ce l'ha con un grosso uccello nero appollaiato su uno dei due alberi. "Ci manca solo che si metta pure ad abbaiare alle cornacchie! Quello non è un cane, è uno sfondatimpani su quattro zampe!"


Sarà... a me Bolivar è già simpatico. Però che cosa curiosa, penso: in due giorni non ho visto nemmeno una cornacchia qui, mentre oggi, questa è già la quarta.



* * *


Sono passate più di due ore. Il pranzo a casa di Paperino, tutto a base di specialità tratte dal ricettario di Nonna Papera e - devo dire - interpretate magistralmente dal cuoco, è terminato. Come ultima portata Paperino ci ha riservato le ciambelle e i "muffins" con il maple syrup, lo sciroppo d'acero, che ha già fatto ieri per Paperoga. Anche quest'ultimo, tanto per cambiare, si è autoinvitato. Peccato che non si sia autoinvitato anche lo zione, come nei fumetti! Quasi quasi m'era venuta l'idea di prendere di nascosto un ventilatore che diffondesse il profumo verso una certa collina...


Ci sono anche Gastone e Anacleto. Si sa, coi vicini, anche antipatici, bisogna sempre cercare di tenere buoni rapporti, mi fa Paperino, a bassa voce... e Anacleto non è proprio antipatico. Sì, un po' sbruffone lo è, ma nei fumetti sembra peggio.


"Così, te la sei svignata mentre ero al supermercato, eh?" mi fa Gastone. "Ti sei visto il parco? O sei andato a caccia di belle papere?"


(Che faccio? Glielo dico di quella paperotta? No, meglio di no...) "Sai" rispondo "sapevo che spesso al parco c'è tuo zio... speravo magari di beccarlo alla ricerca di qualche giornale vecchio..."


"oh... ma ancora quella storia dei giornali?" fa Paperino, incredulo "Ma voi lettori pensate davvero che Zio Paperone vada a leggere i giornali al parco?"


"Beh... si vede in tutte le storie, no?" replico candidamente.


"Zniga... fai un ragionamento: il Papersera è suo, ne è il direttore e il proprietario, per cui ne ha a disposizoine almeno una copia gratuita al giorno. Tutte le case editrici qui sono sue, tranne quella del giornale di Rockerduck, che non legge. Per cui... a cosa gli servirebbe? Quella cosa lì la fa solo quando lo disegnano... fa... come dire? fa parte del personaggio, capisci? È una cosa pittoresca, caratteristica, più che altro, di quelle che lo rendono simpatico ai lettori... e i giornali che raccatta poi se li porta a casa e ne fa tante pallottole da mettere nella stufa d'inverno... come si faceva un tempo..."


"Già, come si faceva nel Klondike, magari..."


"A proposito... quando domattina andrai dallo zione, tu non parlargli mai del Klondike se non ne parla lui! Rischieresti di doverti sorbire un suo monologo senza fine!"


Sarà... ma darei non so cosa per ascoltare un monologo senza fine di Paperon de' Paperoni sui tempi della corsa all'oro nel Klondike...



* * *



Dopo essermi riposato un po' sulla sdraio nel giardino di Paperino, e dopo aver sistemato le mie cose nella camera dei nipotini, scendo di nuovo al piano di sotto.


Ormai è sera... ma con tutto quello che ho mangiato a pranzo non credo che avrò voglia di cenare! Così mi siedo davanti alla TV.


Un'emittente locale sta mandando in onda un servizio sulla prossima edizione di una sorta di gara comunale chiamata Sfida Infida - anche questa l'ho già sentita - che si terrà a Paperopoli tra poco più di un mese. L'ultima edizione, guarda caso, è stata vinta da Gastone. Bolivar, nel giardino, abbaia ancora e scorrazza. Che cane agitato.


Ora fa più fresco e avrei voglia di farmi un giro. Così Paperino mi fa una proposta.


"Zniga... è sabato sera. I nipotini non ci sono e per te è l'ultima sera a Paperopoli. Che ne diresti se tra un po' uscissimo e ti portassi a vedere Paperopoli by night?"


Wow, mi piace questa proposta... anche perché la vita notturna paperopolese è un aspetto di questa città che non conosco. E poi chissà, di notte magari beccheremo i Bassotti da qualche parte...


Così ci mettiamo d'accordo: un rapido giro di telefonate, verranno anche Paperoga e Gastone... e io sono già elettrizzato. Non ho idea di cosa si faccia il sabato sera a Paperopoli. E non vedo l'ora di scoprirlo. Chissà se in giro troverò anche la bella paperotta di oggi...


...e ora non c'è tempo da perdere: saltando gli scalini a due a due corro al piano di sopra a farmi una doccia...


Sarò pronto in meno di un quarto d'ora, urlo a Paperino che è nella stanza a fianco, mentre metto sottosopra tutta la mia valigia per trovare qualcosa di decente da mettermi stasera, facendo volare jeans, calzini e magliette ovunque. ma non m'importa del caos che sto facendo: per mettere in ordine c'è sempre tempo. È l'ultima sera, domani incontrerò Paperon de' Paperoni, e ora fuori dalla finestra, nella luce ormai tenue del crepuscolo, una Paperopoli segreta, ancora tutta da scoprire, mi sta aspettando...


 
Note.


Daphne Duck, madre di Gastone, inventata da Carl Barks per il suo albero genealogico personale dei paperi, compare ne L'Invasore del Forte Paperopoli di Don Rosa, D 93227, marzo 1994.


La "storia imminente" per la quale Gastone deve prendere confidenza con la spider nuova è Gastone e la fortuna da barattare di Stefano Ambrosio - Antonello Dalena, I TL 2690-4, giugno 2007.


Il riferimento alla misteriosa cassaforte che si troverebbe all'interno della casa di Gastone, citata all'inizio del racconto, è tratto da Gastone e la prova del lavoro di Carl Barks, pubblicata in Italia su TL 735, agosto 1951, nella quale la cassaforte serviva a Gastone per tenere al riparo da occhi indiscreti l'unica moneta da lui guadagnata lavorando.


Ho scelto di ubicare il quartiere brasiliano alla periferia settentrionale perché le storie brasiliane spesso si concentrano su di un singolo personaggio, nella maggior parte dei casi "marginale" (come la citata Gloria, fidanzata di Paperoga, inventata in Brasile nel 1972, o Pennino con la sua inseparabile amichetta Cinzia, apparsi dieci anni più tardi) e spesso hanno ambientazioni periferiche.


Il cantante noto come Capellone Joe compare nella storia Zio Paperone e la regina dei dinghi di Carl Barks, W WDC 77-02, 1966.


L'aspetto del Vecchio faro, citato in diverse storie, è tratto da Paperinik e il tesoro di Dolly Paprika di Marco Gervasio, I TL 2675-1. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la Cattedrale di Notre Duck.


Il cane sanbernardo Bolivar è un'invenzione di Charles Alfred Taliaferro e compare fin dalla fine degli anni Trenta nelle strisce; ripreso da Barks e da diversi altri autori, è stato in seguito sempre meno utilizzato. È un personaggio che ho sempre apprezzato e per questo, oltre che per ricordare Taliaferro che non viene altrimenti mai citato nel racconto, ho deciso di inserirlo.


Il giardino e il piano terra della casa di Paperino sono descritti come appaiono in Paperino e la fortuna sfortunata di Rodolfo Cimino - Giorgio Cavazzano, I TL 1881, dicembre 1991.


La gabbietta del criceto con la ruota che aziona la dinamo per accendere la lampadina compare nella prima vignetta di Paperino e la data terribile di Carl Barks, pubblicata in Italia su TL 208, aprile 1959; dalla stessa storia è tratto il riferimento all'aspetto del parco, con il ruscello presumibilmente affluente del Tulebug che lo percorre, e alla presenza, nelle vicinanze di quest'ultimo, di un grande supermercato.


La statua di Cornelius Coot fondatore della città e antenato di Nonna Papera compare per la prima volta in Statuesque Spendthrifts di Carl Barks, pubblicata su Walt Disney's Comics and Stories n. 138. In seguito, moltissimi autori tra cui Don Rosa, Giorgio Pezzin e Massimo De Vita lo rappresenteranno, sia sotto forma di statua che in carne ed ossa in storie ambientate nel passato.


La poltrona verde nel soggiorno di Paperino compare invece in innumerevoli storie, comprese Paperino e la data terribile cit., Paperino e la fortuna sfortunata cit., nonché Paperino (& Gastone) e la tele-fortuna di Staff di If - Massimo De Vita, I TL 1597, luglio 1986, citata nella puntata precedente.


 


Il riferimento alla "Sfida Infida" è tratto da Paperino, Gastone e la Sfida Infida di Fabio Michelini - Alessandro Barbucci, I TL 2064, giugno 1995. Il periodo in cui tale competizione si svolge, cioè poco più di un mese dopo la mia visita (quindi all'inizio di giugno) è dedotto dal fatto che la storia in questione è stata pubblicata il 20 giugno, quando la sfida si supponeva conclusa da poco.

14 giugno 2007

La Saga delle Sirene

Né vivere, né morire.
Non ho potuo fare niente
di tutto questo insieme a te...


La saga delle Sirene


L'immortalità. Un antico miraggio che l'uomo rincorre fin dal principio della vita stessa; un sogno irraggiungibile che si perde nei meandri più reconditi dell'esistenza; un desiderio insano e perverso, talvolta disperato, che scaturisce da una favola tramandata attraverso i secoli e le generazioni: a colui che si nutrirà della carne di una sirena saranno concesse eterna giovinezza e longevità. Quello che però non viene narrato dalla leggenda è che la carne di sirena è in realtà un veleno letale, capace di trasformare ogni essere vivente in una creatura mostruosa e priva di sentimenti, condannata a vivere in eterno sotto quelle orrende sembianze. Mentre il destino che attende i più fortunati consiste in una morte atroce e dolorosa oltre l'umana immaginazione. Eppure al mondo sembra esistere anche chi ha ricevuto il dono dell'immortalità senza che il suo corpo ne subisse le tremende conseguenze. La felicità di costoro è però destinata a spegnersi in un lampo sotto il peso della solitudine eterna.
Yuta è un giovane vagabondo che cammina sulla Terra da più di cinquecento anni alla disperata ricerca di una sirena che possa finalmente porre fine al tormento della sua condizione. Yuta desidera invecchiare e morire come qualunque altro essere umano. E nel suo eterno vagare incontrerà Mana, una ragazza anch'essa immortale, sottratta al suo destino di vittima sacrificale sull'altare delle leggendarie creature marine. Perchè se un essere umano che si nutre della carne di sirena è in grado di ottenere l'eterna giovinezza, la sirena che mangia la carne di colei che ha trovato l'immortalità ritorna giovane. E in un villaggio sperduto sulle rive del mare, una congrega di vecchie sirene, dopo anni di estenuanti ricerche e inutili sacrifici, ha finalmente trovato in Mana l'essere immortale che le riporterà al loro antico splendore. Yuta riuscirà a sottrarre la ragazza alla sua triste sorte e da quel momento non sarà più solo. Ma questo in fondo è solo l'inizio di una saga che ci prende per mano e ci trascina in un vortice di oscura aberrazione, laddove l'animo umano si manifesta in tutta la sua disarmante fragilità. Perchè la carne di sirena, prima ancora che per il corpo, è un letale veleno per l'anima di colui che subisce il fascino perverso dell'immortalità. E se da un lato le anime dannate vagano in eterno sulla terra ignare della loro condizione di creature dalle mostruose sembianze, dall'altro le anime corrotte convivono con tutta la sofferenza interiore che il desiderio di sovvertire le leggi della natura ha donato loro. E a noi non resta altro che domandarci cosa sia realmente peggio.

Il bosco delle Sirene  Il segno della Sirena  La maschera della Sirena

La saga delle sirene è senza ombra di dubbio la più bella opera di Rumiko Takahasi. Personalmente ho sempre avuto delle riserve nei confronti di questa autrice tanto osannata da qualsiasi appassionato di fumetti del Sol Levante. Di lei ho sempre amato quel suo stile dissacrante ma al tempo stesso profondamente legato alle tradizioni occulte del Giappone. E' indubbiamente una donna di grande cultura e dalla spiccata ironia, oltre che un'ottima narratrice. Eppure nessuna delle sue opere più celebri mi ha mai convinto fino in fondo. Si è sempre persa nei meccanismi della serialità e nella reiterata ostinazione a voler perpetrare in eterno la staticità delle situazioni che lei stessa creava e che sembrava avesse paura di compromettere in qualche modo. E' come se non fosse in grado di osare spingendosi al di là dei confini di quei piccoli quadretti narrativi che pure sa dipingere così bene. E' un'autrice fondamentalmente prevedibile, nel bene e nel male. Ma la saga delle sirene è tutt'altra cosa. E' un'opera completa e appassionante in cui la Takahashi sembra riversare tutta se stessa raggiungendo vette emotive di rara e poetica intensità. Ogni singolo capitolo è una piccolo capolavoro curato fin nei minimi dettagli che rende finalmente giustizia all'arte di questa grande autrice, senza i limiti relativi alle improrogabili scadenze seriali imposte dalla casa editrice. La struttura stessa dell'opera, organizzata secondo l'alternarsi di epoche storiche differenti secondo uno costruzione temporale che ricorda vagamente quella adottata da Tarantino nella maggior parte delle sue pellicole, offre grande respiro allo sviluppo del racconto. Ma la saga delle sirene è purtroppo una storia ancora incompleta, costituita da soli tre volumi per un totale di nove episodi. Onestamente non so se questo splendido racconto troverà mai una conclusione, ma sono certo che la lettura di queste pagine vi darà modo non solo di conoscere il lato più intimo e poetico della Takahashi, che purtroppo traspare appena nell'ambito delle sue opere più conosciute, ma anche di sondare gli oscuri e deliranti sentieri dei sentimenti umani più profondi, siano essi innocenti o intrisi di sottile e perversa crudeltà.

Le Sirene non sorridono mai  Fine di un incubo  Il bosco delle Sirene



Scritto da Deeproad

7 giugno 2007

MAUS

Il dramma dell’umanità ridicolizzata: Maus di Art Spiegelman




Chi è Art Spiegelman?
Il professor Arthur Spiegelman (insegna storia ed estetica del fumetto alla School of visual arts di New York) è nato nel 1948 a Stoccolma da una coppia di ebrei polacchi rifugiati scampati ad Auschwitz e che di lì a poco si trasferiranno negli Stati Uniti dove il piccolo Artie crescerà e vivrà. Il padre Vladek, uomo dallo spiccato senso imprenditoriale e che le vicissitudini della guerra hanno reso pragmatico fino ai limiti del cinismo, lo vorrebbe dentista, ma Arthur studia fumetto e illustrazione, e a 16 anni comincia a disegnare professionalmente. Al college studia arte e filosofia, e comincia a lavorare per la Topps (grossa industria americana della gomma da masticare) realizzando loghi e disegni durante tutta una collaborazione che durerà oltre vent’anni e che naturalmente influenzerà pesantemente l’approccio di Spiegelman all’illustrazione. Spiegelman infatti è forse il più “metropolitano” dei grandi autori di fumetti; entra in contatto col mondo del fumetto underground, lo studia e ne assorbe le caratteristiche, fondendole in uno stile composto da una molteplicità di stilemi che gli permette di approcciarsi ad ogni singola storia, ad ogni singolo tema, con le modalità grafiche che ritiene più consone. Le sue vignette compaiono sulle riviste più disparate, dal New York Times a Playboy, fino a fondare lui stesso una rivista specializzata, Raw, dedicata appunto al fumetto, alla grafica e all’illustrazione, vero punto di riferimento di tutto il mondo dei cartoonist americani (una sorta di corrispettivo, in grande, dell’italiano Scuola di fumetto), e veicolo di quella che sarà l’opera più importante di tutta la produzione di Spiegelman e che gli consegnerà finalmente la giusta considerazione a livello mondiale e socio-culturale, fruttandogli lo Special award del Premio Pulitzer nel 1992.



Autoritratto di Art Spiegelman




Che cos’è Maus?

È sulle pagine di Raw, infatti, sin dal primo numero, che Spiegelman comincia a pubblicare a puntate Maus, una delle più importanti opere di narrativa del secolo scorso.
Maus è una graphic novel sull’olocausto, e in realtà, pur essendo semplicemente questo (in fondo è come dire che l’Iliade è un poema sulla guerra di Troia), è molto di più. La narrazione di Maus si snoda su due livelli diversi, c’è il presente con Arthur Spiegelman che va a casa del padre Vladek per intervistarlo, e c’è il passato della guerra e dell’olocausto visto attraverso il racconto di Vladek. Ma non si tratta solo di un doppio racconto, il montaggio non è alternato ma parallelo, i due livelli spazio-temporali insomma sono distinti ma non separati, intercorre anzi tra i due, e sta qui il nodo della riuscita dell’opera, un rapporto di interazione strettissimo, una relazione di influenza reciproca: il rapporto tra Art e il padre (e Mala, la donna con cui il padre si è risposato dopo la morte della madre di Arthur) fornisce una chiave di lettura con cui cogliere al meglio il dramma del racconto di Vladek, e ancora di più è vero il viceversa, il racconto di quello che è successo al povero Vladek durante la Seconda Guerra Mondiale non è che lo specchio, la metafora, del dramma umano di un padre e un figlio che pur volendosi bene non riescono a non essere distanti, su due mondi diversi (situazione sottolineata anche dal linguaggio dei due, inglese sciolto quello di Art, affannato quello del padre, non madrelingua e segnato dalla parlata della comunità ebraica newyorchese e da strutture sintattiche tipiche dello yiddish), non riescono a trovare la sintonia per un rapporto sereno e intimamente familiare.



Maus - Racconto di un sopravvissuto



La storia – Il dramma degli avvenimenti
In un breve prologo di due pagine, il piccolo Artie (nel 1958, quindi a 10 anni) si fa male giocando con gli amici, e il padre vedendolo lo avverte: “Se chiudi loro insieme in stanza senza cibo per una settimana… allora tu vedi cosa è amici!...”.
Subito dopo comincia la vera (doppia) vicenda. Art, adulto, va a trovare il padre che ora abita con Mala, un’altra sopravvissuta (“come quasi tutti gli amici dei miei”). Dopo cena, i due si recano nello studio di Vladek, e qui Arthur convince il padre a cominciare a raccontargli della sua terribile esperienza, per il libro che già da tempo vuole scrivere e di cui già aveva parlato al genitore.
Il racconto di Vladek non comincia direttamente con la guerra o da qualche punto saliente, ma da quando era giovane e viveva tranquillamente a Czestochowa, commerciando in tessuti e divertendosi come tutti i giovani. Si districa a fatica da una relazione, che lo diverte ma non lo convince, per sposare Anna (detta Anja) Zylberberg, una ragazza non attraente ma intelligente e sensibile, oltre che – Vladek si premura di sottolinearlo – di famiglia più che benestante. A questo punto Vladek interrompe la narrazione per chiedere al figlio di non mettere nel libro questa parte, perché “non c’entra niente con Hitler, con Olocausto”; Art insiste, dice che vuole mettere tutto, per rendere la vicenda più umana, ma alla fine, nell’ultima vignetta con i due personaggi in controluce, il vecchio Vladek strappa al figlio la promessa di tralasciare queste parti private. Siamo alla fine del primo capitolo. Ogni capitolo presenta una visita di Art al padre, e il brano di storia che da questo si fa raccontare.
Nel secondo capitolo cominciano i guai: nasce Richieu, il primo figlio di Vladek e Anja, ma il parto incide sul già debole sistema nervoso della donna, che finisce in una clinica per ritrovare la serenità. Lungo il viaggio i due protagonisti si trovano per la prima volta davanti a una svastica, e durante la loro assenza avvengono i primi movimenti antisemiti a Sosnowiec, la città in cui vivono con la famiglia di Anja. Il 24 agosto 1939, Vladek viene richiamato nell’esercito polacco. Nel terzo capitolo Vladek racconta della sua esperienza sul fronte all’inizio della guerra, della sua cattura da parte dei militari nazisti come prigioniero di guerra e della sua (prima) detenzione, fino al rilascio; le leggi internazionali proteggono lui e i suoi compagni come prigionieri di guerra, ma una volta rilasciati chiunque è libero di sparare loro per strada, così Vladek – che già ha iniziato a mostrare la sua straordinaria capacità di adattamento e gestione – deve ingegnarsi e fingersi polacco per farsi aiutare da un ferroviere a tornare a casa da Anja. Il titolo del quarto capitolo parla chiaro: Il cappio si stringe parla della sopravvivenza a Sosnowiec di Vladek e Anja con la famiglia di lei, e delle misure sempre più repressive nei confronti degli ebrei da parte degli occupanti nazisti, con coprifuoco, controlli serrati, impiccagioni per strada, sequestri di anziani e elementi non produttivi, fino alla prima grande convocazione nello stadio della città, in cui circa un terzo dei membri della comunità ebraica cittadina sono stati trattenuti dalle SS per non fare più ritorno; tra questi, anche il padre di Vladek con la figlia e i nipoti.
Il quinto capitolo si apre con una svolta nel rapporto tra Art e Vladek. Da Mala, Art viene a sapere che il padre ha trovato e letto Prigioniero sul pianeta inferno, il breve fumetto che Art scrisse per superare il trauma del suicidio della madre (riportato per intero nelle pagine di Maus). Si tratta di una storia incredibilmente intensa, disegnata con tratti espressionistici e molto personale, sconvolgente per Mala e anche – a quanto dice la stessa Mala – per Vladek, che cambia il suo approccio verso il figlio ma paradossalmente verso un rapporto di maggior fiducia; vedere che in qualche modo Artie ha superato a suo modo quella tragedia avvicina i due, nel ricordo di Anja (mentre si incrina sempre di più il rapporto tra Vladek e Mala).
E il racconto di Vladek procede poi, di capitolo in capitolo, (attra)verso tutte le vicissitudini passate da lui e Anja, nel ghetto, nei bunker costruiti per nascondersi, nelle cantine di chi ha dato loro una mano, nel campo di concentramento di (M)Auschwitz, attraverso la morte di tutti i loro cari, i genitori di Anja, il figlio Richieu, parenti, amici, conoscenti, attraverso le torture fisiche e ancora di più psichiche.
Attraverso la più grande tragedia, fino all’epilogo, tragico a sua volta, ma riconciliatorio.



L'inizio della storia: Art va a trovare il padre Vladek.



Padre o memoria storica? – Il dramma dei sentimenti
L’unicità di Maus in relazione al mondo del fumetto sta sicuramente nell’essere innanzitutto un’opera tragicamente autobiografica e personale (come la mini storia Prigioniero nel pianeta inferno). Anzi, direi doppiamente autobiografica, poiché da una parte c’è Spiegelman che parla di sé stesso mettendosi in scena come uno dei protagonisti principali, e dall’altra c’è Vladek che parla di sé stesso al figlio.
E alla fine è difficile dire tra le due vicende quale colpisca di più per la sua durezza, se la storia di Vladek attraverso la guerra e lo sterminio, o la storia di un padre e un figlio dal rapporto difficile. “Non lo vedevo da molto tempo. Non eravamo molto uniti” recita la didascalia nella prima vignetta del primo capitolo, e questa distanza personale si ritrova in tutta l’opera, Art si imbarazza e si sente in difficoltà ogni volta che il padre si intromette nei suoi affari (come quando gli butta via il cappotto vecchio) o vuole intromettere il figlio nei suoi (come quando parla del testamento e dell’eredità, o di Mala).
Quello che tuttavia colpisce, in effetti, è la spudoratezza con la quale Artie intervista letteralmente il padre sugli eventi che hanno segnato la sua vita, prende appunti, registra, e la freddezza con cui il padre restituisca un resoconto dettagliato e narrativamente organizzato degli eventi (al contrario di quanto accada in Prigioniero nel pianeta inferno, che più che il resoconto di un periodo di lutto è l’espressione di un sentimento). Sembra che Arthur sia interessato a Vladek più come memoria storica che come padre, ma la realtà è che Art sa bene che il carattere del padre non gli consentirebbe un racconto “sensazionale”, distorto dalle emozioni. Quello che più interessa ad Art è rispettare la memoria dell’olocausto, e lo fa rispettando la personalità del padre.
Il fatto è che Art Spiegelman aveva sviluppato sin da piccolo un fortissimo coinvolgimento emotivo nei confronti della tragedia della shoah grazie (o per colpa di) ai racconti dei genitori e al carattere burbero e anche un po’ ingombrante del padre. Sentiva quindi il bisogno di comunicare al mondo questa situazione interiore, e l’unico modo per renderla in maniera fedele ed eticamente accettabile era narrarla come a lui stesso era stata narrata, attraverso la stessa fonte, la stessa memoria storica.
In fondo si capisce ad ogni pagina che i due si vogliono tutto il bene del mondo, ma si tratta di due personalità difficili, segnate, solcate dagli eventi, restie ad avvicinarsi per prime ad un'altra persona, e per questo nessuno dei due fa il primo passo verso l’altro. Fino a che per Art non sarà inevitabile muoversi, o restare di nuovo prigioniero all’inferno.



Topi in trappola: Vladek e Anja entrano ad Auschwitz.



Uomini e topi – Il dramma dei corpi
Metafora, dicevo. A chi ha una pur impalpabile idea di quello di cui sto parlando non serve neanche che lo dica: Maus deve con ogni probabilità la sua fortuna all’azzardata forma allegorica (decisamente più orwelliana che disneyana) attraverso cui Spiegelman ha scelto di deformare il dramma delle vicende e dei rapporti umani. Ispirandosi in particolare a un racconto di Kafka (Giuseppina la cantante, ovvero il popolo dei topi), al Krazy Kat di George Harriman, e al film di propaganda nazista Der ewige Jude di Fritz Hippler, Spiegelman sceglie di rappresentare satiricamente gli ebrei come topi (maus, appunto). Quelli di Maus sono topi non caricaturizzati o resi simpatici e accattivanti come Topolino o Speedy Gonzales, ma “semplicemente topi”, topi stilizzati col corpo umano e la coda, o meglio ancora esseri umani in tutto e per tutto ma con la testa e la coda da topi. Non un topino divertente come protagonista, anzi il protagonista nelle varie vignette si distingue dagli altri solo grazie al dialogo, o a volte dai vestiti, ma una miriade di topi tutti uguali, come quelli scacciati dal Pifferaio di Hamelin dei fratelli Grimm, come tutti uguali erano gli ebrei agli occhi dei nazisti. Il topo in genere piace in quanto Davide che si ingegna per avere la meglio su Golia, ma il caso dell’olocausto è la più grossa dimostrazione di quanto sappia essere idiota l’essere umano, una razza che pretende di essere più evoluta degli animali ma in cui ancora troppo spesso vige la legge del più forte. I nazisti infatti sono gatti, gatti non grottescamente sfortunati come Tom o Silvestro, ma gatti cattivi, famelici e spietati, bracconieri, assassini. E così via, proseguendo con le metafore, i polacchi sono maiali, i francesi sono rane, gli americani sono cani.
Del resto è lo stesso Hitler, in vari passi del Mein kampf, ad appellare gli ebrei col dispregiativo di “ratti”; l’intento di Spiegelman infatti è di mostrare l’idiozia del razzismo nazista, che ha portato ogni uomo a sentirsi in dovere di comportarsi secondo il ruolo attribuito al suo gruppo etnico o nazionale, a fronte dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Così i gatti nazisti si sentono in diritto e in dovere di dare la caccia ai topi ebrei, i polacchi approfittano della situazione per dare sfogo al loro antisemitismo e alla loro bestialità, e via discorrendo.
Se gli esseri umani sono rappresentati come animali, gli animali non sono assenti, ma si fanno anch’essi veicolo di significati, comunicano quasi sempre un’idea, una sensazione, una situazione. Così, nella terzultima tavola del sesto capitolo del primo libro, all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, un pastore tedesco col muso da t-rex e inferocito come uno squalo accoglie i deportati assieme ai nazisti-gatti, pregustando il massacro finale. Davanti a quella scritta “Arbeit macht frei” si perdono le speranze, sembra che nulla possa cambiare il proprio tragico destino; anche l’essere più forte del gatto si schiera a fianco di questo, anzi ne è succube, è al suo guinzaglio.
Nella diciottesima tavola dello stesso capitolo appare un ratto. Un ratto vero, uno di quelli che fanno ribrezzo e di cui si ha paura quando si scende in cantina al buio. Vladek e sua moglie Anja si stanno nascondendo proprio nella cantina di una signora polacca che offre loro aiuto, e Anja, sentendo dei rumori al buio, teme che si tratti di ratti! Il ratto c’è davvero, ma è nascosto dietro una botte, Spiegelman lo fa vedere solo a noi, Anja non lo vede, ma ne ha paura.

Un pastore tedesco al guinzaglio di un gatto, e un topo che ha paura di un ratto.
Un padre e un figlio che non riescono a conoscersi se non attraverso un registratore.
L’umanità messa in ridicolo, il dramma più atroce.